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Le imprese italiane cercano 150.000 tecnici, ma non ci sono

da | Mag 23, 2018 | Glocal | 0 commenti

di Andrea Lodi

Francesca è una dei diecimila studenti italiani che frequenta un Istituto Tecnico Superiore. L’ITS Biomedicale di Mirandola, per la precisione. Assieme al compagno di scuola Simone, Francesca entro un anno dal conseguimento del diploma di Tecnico Superiore, troverà un lavoro coerente con le competenze acquisite.

Secondo l’ultimo monitoraggio del MIUR, infatti, più dell’80% dei diplomati ha trovato lavoro nel giro di pochi mesi. Merito di un percorso formativo di tipo tecnico che tiene conto delle caratteristiche del nostro sistema economico. Gli ITS sono organizzazioni formative che coinvolgono imprese, enti pubblici, centri di ricerca ed associazioni di categoria, al fine di garantire una formazione adeguata alle reali esigenze delle imprese, ed una “certezza” occupazionale ai tanti giovani che si affacciano sul mercato del lavoro.

E’ una risposta al fenomeno che gli inglesi definiscono Skill Mismatch, ovvero il gap esistente tra le competenze dei potenziali lavoratori e quelle richieste dalle imprese.

Purtroppo si tratta di una timida risposta. I novantacinque ITS presenti in Italia, che offrono percorsi formativi post diploma della durata di due anni, dislocati in prevalenza nel nord Italia, attualmente contano poco più di diecimila iscritti, contro una domanda di lavoro da parte delle imprese, stimata nei prossimi cinque anni, di oltre 150 mila tecnici.

Un paradosso. Se si pensa che la disoccupazione giovanile, secondo i dati pubblicati dall’Istat, è del 31,7% nella fascia 15 – 24 anni e del 16,0% nella fascia 25 – 34 anni, risulta difficile spiegarsi perché le imprese non riescano a trovare giovani lavoratori.

I profili maggiormente richiesti riguardano i settori della meccatronica, della meccanica, della chimica, del tessile, dell’alimentare, del turismo, dell’Ict e del benessere. Certo che non si può pensare che un giovane interessato alla filosofia possa immaginare il suo futuro professionale in un’azienda del comparto tessile o meccanico. Sono gli effetti di un “eccesso di libertà”, direbbe qualcuno, nel senso della programmazione del nostro futuro lavorativo, di cui soffre (o gode) il nostro Paese.

In Germania, ad esempio, le cose funzionano in modo diverso. Per la classe media, il futuro di ogni tedesco è predeterminato dalle istituzioni. Non è il singolo individuo a scegliere quale scuola frequentare, ma l’istituzione scolastica, in base a valutazioni sulle quali il genitore non può proferire parola. Le Fachhochschulen, il corrispondente tedesco dei nostri ITS, superano il milione di studenti. Un rapporto di 1 a 100.

ITS a parte, la domanda da porsi è: che fine fanno i diplomati tecnici italiani che non si iscrivono agli ITS? Negli ultimi dieci anni sono diminuiti in modo sorprendente le iscrizioni agli istituti tecnici e professionali. Per contro invece sono aumentati i liceali. Secondo uno studio realizzato dalla Fondazione Agnelli, più della metà dei diplomati italiani, a due anni dal diploma, si accontenta di un lavoro qualsiasi. Un dato preoccupante, su cui vale la pena riflettere. Ma mentre noi riflettiamo, i tecnici tedeschi premono alle porte. Una nuova ondata di invasione barbarica?

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