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Apologia di Marchionne

da | Lug 26, 2019 | Economia, Personaggi | 0 commenti

di Andrea Lodi

Il 25 luglio del 2018 moriva in una stanza dell’Ospedale Universitario di Zurigo, Sergio Marchionne, uno dei più grandi manager mondiali di sempre.

Il manager che ha saputo dare inizio ad una rivoluzione in un settore, quello dell’automotive, che ancora fatica ad uscire dall’immobilismo e pragmatismo di un modello imprenditoriale fermo al XX° secolo.

Il manager che ha trasformato la FIAT – azienda prossima al fallimento – in un gruppo globale che a fine 2018 registrava zero debiti e cinque miliardi di profitti adjusted (profitti in assenza di componenti straordinarie di reddito).

Il manager che ha lasciato FCA in balia di sé stessa, incapace di capitalizzare l’eredità lasciata dall’ex Amministratore Delegato, e che ha scelto come strategia per il futuro, un potenziale accordo, di là da venire, con la francesissima Renault.

Un manager che comunicava tramite la pregevole arte degli aforismi, che rappresentavano in modo chiaro lo stile, il carattere di Marchionne, e il suo modo di vedere il mondo che lo circondava.

Italiano di nascita, americano di formazione e pensiero, ma con il cuore nella terra natia. Il basso profilo rappresentava la sua cifra: “io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente chi sono”.

Con il progetto FCA aveva una visione: creare un costruttore di auto globale con un bagaglio di esperienze, punti di vista e competenze unico al mondo. Era considerato un visionario: “esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno”.

Era un uomo che sapeva valorizzare il capitale umano. Esigente, ma capace nel riconoscere il valore delle persone: “non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi, sono per il riconoscimento delle capacità delle persone. Che abbiano trenta o sessantanni”.

Il leader moderno deve saper rompere gli schemi e non rassegnarsi ad accettare lo status-quo: “ai miei collaboratori raccomando sempre di non seguire linee prevedibili perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti”.

Un uomo solo al comando.La responsabilità condivisa non esiste”, disse una volta. Era consapevole del delicato e difficile ruolo che si era creato. La famiglia Agnelli, quando nell’ormai lontano 2004 l’aveva chiamato per sostituire il defunto Umberto Agnelli, mai si sarebbe immaginata che la FIAT potesse diventare, con il progetto FCA, uno dei primi otto costruttori di automobili al mondo per numero di veicoli prodotti.

Non amava frequentare i salotti, ma sapeva essere amico dei politici. Era un uomo d’azienda, amante del pragmatismo: “il carisma non è tutto. Come la bellezza nelle donne: alla lunga non basta”.

Era un uomo dalle larghe vedute, che sapeva guardare al futuro, con fiducia e perseveranza. Tra gli aforismi citati, ce n’è uno che mi ha particolarmente colpito. Anche perché mi ha ricordato un romanzo nato dalla straordinaria mente creativa dello scrittore americano (polacco di nascita) Jerzy Kosinski. Chance “the gardener”, il protagonista del romanzo “Oltre il giardino”, usava riferimenti “floristici” per commentare gli accadimenti politici dell’America degli anni “70: “siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera o perfino più a lungo”, disse una volta Marchionne.

Rimanendo in ambito letterario, c’è una frase che mi è capitato di leggere di recente, in un altro straordinario romanzo nato dal talento di Muriel Barbery: “L’eleganza del riccio”.

Nel romanzo, al capitolo terzo di “Paloma”, c’è una frase che in dieci righe riassume in modo chiaro l’idea che mi sono fatto di Marchionne, e che corrisponde all’idealizzazione, che ancora nutro, di ciò che dovrebbe rappresentare la figura del politico.

“A cosa serve l’intelligenza se non a servire? E non mi riferisco al falso servizio che gli alti funzionari di Stato esibiscono fieri come segno della loro virtù: un’umiltà di facciata che è solo vanità e disprezzo. Agghindato ogni mattina con l’ostentata modestia del gran servitore, Etienne de Broglie – uno dei personaggi del romanzo di professione politico – mi ha convinta da molto tempo dell’orgoglio della sua casta. Al contrario, i privilegi conferiscono doveri reali. Appartenere al ristretto cenacolo dell’élite significa servire in proporzione alla gloria e alle facilitazioni che si ottengono nella vita materiale grazie a questa appartenenza”.

L’ultimo capoverso è quello che mi ha particolarmente colpito. E sono più che convinto che Sergio Marchionne la pensasse esattamente così. Una volta disse: “l’Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene”.

Leggi l’articolo dal titolo “Sergio Marchionne: innovatore o visionario?” pubblicato il 28 luglio 2018

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