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02 Maggio 2024
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Il grande abbraccio di Mirandola a Gino Cecchettin

L'abbraccio di Mirandola a Gino Cecchettin. Più di 400 persone hanno affollato la sala dove il papà di Giulia, la giovane uccisa dall'ex fidanzato, raccontava la sua storia. Raccontano dall'Avis Mirandola, che ha organizzato questo appuntamento nell'ambito della sua rassegna culturale, è stato un "Pomeriggio di grande dimensione umana e partecipazione civica e culturale oggi (sabato 13 aprile ) a Mirandola con Gino Cecchettin ed Avis.
In oltre 400, tra cui molti giovani, hanno "sfogliato", insieme a Cecchettin -  intervistato per l'occasione dalla professoressa Alessandra Mantovani - uno straordinario libro, "Cara Giulia" (Rizzoli).
Grazie Cecchettin. Grazie delle tue parole di  padre che, pur nel dramma della morte violenta della figlia, hai scelto di condividere il tuo dolore per un grande progetto contro la violenza di genere".
 
La cronaca di Emanuela Goldoni:
Alla fine dell’intervista, una giovane ragazza in prima fila prende parola. “Ero partita da casa, con l’intenzione di farle alcune domande, ma dopo il suo intervento, nonostante l’invito a fare rumore, credo sia arrivato il momento per noi di stare in silenzio”.
Una sala piena, ieri pomeriggio a Villa Tagliata di Mirandola (MO). Gli occhi e le orecchie incollati a Gino Cecchettin. Una tensione emotiva durata oltre un’ora, che si è spezzata solo in chiusura, quando uno scroscio catartico, quasi liberatorio, di applausi si è alzato.
Io ieri ho visto un uomo. Un padre, un collega, un conoscente che senza alcuna pretesa di erigersi a maestro, si è confidato davanti a una folla di sconosciuti.
Lo ha accolto “in punta di piedi, partendo proprio dal libro ‘Cara Giulia (quello che ho imparato da mia figlia)”, la (mia) professoressa Alessandra Mantovani, che con incommensurabile e immutato garbo, ha conversato con Cecchettin.
Qualcuno si asciuga le lacrime, tra il pubblico. Qualche altro cerca di trattenerle. Nemmeno gli squilli disattenti di qualche cellulare riescono a interrompere un momento così intimo e umano, nel senso più alto del termine.
Ed è proprio di senso umano che Gino Cecchettin, tra le righe, credo abbia voluto parlare. Quello che tra “rabbia e amore” è riuscito a trovare.
Lui, agnostico, dice di se stesso, mosso da una ponderata razionalità, probabilmente la stessa che ha imparato a usare nella sua figura sociale di piccolo imprenditore veneto, di fronte a una scelta, ha optato per l’amore di sua figlia, il cui dolore, ricorda, “è grande come una montagna”, ma che giorno dopo giorno sta imparando a sopportare.
“Se fossi stato credente, non avrei affrontato il dolore in questa maniera. I credenti - dice, sanno che c’è un dopo”. Cecchettin ha voluto riprendersi quel tempo e cristallizzare nell’ora e nell’adesso, tutta la trasformazione del suo dolore in qualcosa di bello e positivo.
“Vale di più il dolore che mi ha provocato la perdita di Giulia o il dolore che mi hanno provocato gli odiatori da tastiera”, si chiede e ci domanda Gino Cecchettin. La risposta è pronta e si intuisce.
Mettetevi nei panni di un uomo - voi che lo avete giudicato e insultato - che è stato travolto da due lutti a pochi mesi di distanza: prima la perdita della moglie Monica, poi della figlia Giulia.
Un uomo che non si vergogna a dirlo: ha dovuto cercare la parola “patriarcato” nel dizionario, quando sua figlia Elena, per prima, gliene aveva parlato, accusando proprio la cultura patriarcale (in tutte le sue subdole forme) di aver ucciso la sorella.
Un uomo che confessa di essere, gioco forza, figlio della cultura patriarcale, il cui nonno soleva ripetere a sua moglie “stai zita, femena”; il cui padre aveva preteso che la moglie non lavorasse, per tenere “tutto” (n.d.r) sotto controllo.
Un uomo che, sicuramente in passato, si è prestato a qualche battuta goliardica.
Eppure è lo stesso uomo che, in tempi non sospetti, si mise in ascolto della moglie, quando gli diceva “grazie” per averla aiutato a sparecchiare. Ed è in quel momento lì che Gino Cecchettin ha cominciato a pensare che c’era qualcosa di sbagliato in quel sommesso senso di riconoscenza.
Gino Cecchettin, il perito elettrotecnico, il piccolo imprenditore veneto, l’uomo si è riconciliato con i ruoli sociali di uomo e donna. Si è interrogato, ha letto. Ha studiato il fenomeno del femminicidio. Ha ricordato i 125 femminicidi all’anno in Italia. Uno ogni 5 minuti.
Ha ascoltato i figli.
Ha sfogliato il quaderno “Prospettive” sul quale Giulia, l’ingegnera che voleva diventare professoressa d’italiano, ritraeva la sua famiglia, fino al 9 di novembre. Poi le pagine bianche: il vuoto, quel vuoto, pesante e straziante che solo un genitore che perde un figlio conosce.
Gino Cecchettin non nomina mai nel libro che ha scritto con Marco Franzoso, Filippo Turetta. Turetta è l’ex. Non è un “mostro”, non è “il bravo ragazzo preso da un raptus”, non è tutti quegli epiteti di comodo che si usano con indulgenza.
Giulia aiutava le formichine smarrite a ritrovare la strada. Parlava con loro con una voce buffa e dava loro un nome.
 

 
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