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11 Febbraio 2025
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Medolla, dalla passione per i motori al tennis paralimpico: intervista a Marco Pincella

di Simone Guandalini MEDOLLA -  "Non cerco di essere un campione: quello che provo a fare è essere il miglior Marco ogni giorno, nella vita, come nello sport". Si presenta così Marco Pincella, tennista paralimpico medollese. Ora nella sua vita il tennis ha assunto un ruolo importante, ma, sportivamente parlando, il primo amore di Marco sono i motori: questa passione gli è stata, infatti, trasmessa fin dall'infanzia dalla famiglia ("quando sento una moto, tuttora, mi vengono i brividi, sento il sangue che si scalda. L'odore della benzina è qualcosa che anche adesso mi accende"). Poi, il 20 giugno 2010, proprio in quello che sarebbe dovuto essere un giorno di festa (era il giorno del suo 27esimo compleanno), un incidente in moto al Mugello lo ha costretto su una sedia a rotelle. Da quel momento, la vita di Marco Pincella è cambiata radicalmente: oggi, dopo aver provato altri sport, come i go kart, lo sci, il canottaggio e il ciclismo, si dedica al tennis paralimpico e ha raggiunto la posizione numero 6 in Italia. Facciamo un passo indietro e partiamo dal tuo rapporto con il mondo dei motori.
"La passione mi è stata trasmessa dalla mia famiglia: da mio padre, ma anche dai nonni e dagli zii materni. Mi chiamo Marco perchè sono nato nel 1983 e due anni prima Marco Lucchinelli vinse il Mondiale. I motori li ho sempre respirati fin da bambino, frequentando i circuiti, nonostante non potessi andare in moto perchè i miei non volevano. Ad andare in moto ho iniziato tardissimo, a 21 anni: tre anni dopo ottenni la mia prima licenza e feci la mia prima gara".
Poi, nel 2010, l'incidente.
"Dell'incidente io non ricordo niente: di quel weekend ricordo solamente il venerdì, quando avevo fatto una scivolata banalissima, e il sabato notte, a mezzanotte, quando i miei amici mi hanno telefonato per farmi gli auguri per il compleanno. Tutto mi è stato raccontato successivamente dai miei genitori e da mia moglie, che a quel tempo era la mia fidanzata. In avvio di gara, stavo facendo un sorpasso, quando, nel cambio di direzione, ho pizzicato un cordolo bagnato e ho perso il controllo della moto. Sono scivolato e un'altra moto mi ha sfiorato, riportandomi all'interno del circuito, dove sono stato investito da due/tre piloti. Arrivarono i soccorsi: a quanto mi hanno detto, ero cosciente, ma con condizioni vitali molto basse. Fui portato in rianimazione, poi rimasi in coma farmacologico per circa un mese e mezzo. In totale, sono stato in ospedale circa sette mesi. L'incidente, però, non mi ha tolto la passione per i motori: tuttora, mi sveglio di notte dopo aver sognato particolari riguardanti il paddock, i circuiti, le moto. So, però, che se si vive troppo quel mondo, ce ne si innamora: per questo cerco di parlarne il meno possibile a mio figlio Pietro, di 6 anni".
Come hai affrontato la disabilità?
"Parlare della mia disabilità adesso non è un problema e non mi disturba. Chiaramente non posso dire di essere contento di quello che è successo, però dopo l'incidente ho scoperto tanto altro, un mondo che è ancora sconosciuto a tanti: il mondo della disabilità, degli sport paralimpici, ma anche di tutto quello che ti trovi ad affrontare subito dopo aver capito che non potrai più camminare. E' un mondo in cui devi lottare per ottenere qualsiasi cosa. Inizialmente, ho avuto una sorta di rifiuto psicologico: non affrontavo neanche l'argomento, vedevo le persone intorno a me camminare e provavo invidia, mi toccavo le gambe e tiravo via subito la mano perchè sentivo un corpo caldo che non riuscivo a muovere. Le prime cose a cui ho pensato sono state le più banali: dalle necessità fisiologiche alla mia autonomia. Poi, pian piano, attraverso un percorso dove lo sport, inteso come socialità e non solamente come competizione, mi ha aiutato, ho ritrovato una mia 'normalità', mi sono sposato ed è nato mio figlio Pietro. Quando si viene fuori da una situazione molto dura, si sa di averlo fatto, si sa quanto sia costato ottenere quello che si è ottenuto: per questo, non mi permetto mai di giudicare gli altri, ma chiedo anche di non essere giudicato".
Quale è stato il ruolo dello sport nel tuo percorso?
"Il ruolo dello sport non sta nell'aiutarti a diventare un forte giocatore; lo sport è socialità, è ciò che ti permette di capire che puoi farcela. Ho visto e conosciuto ragazzi che per 15 anni sono rimasti chiusi in casa, poi hanno conosciuto lo sport e hanno capito che uscendo poteva esserci un mondo. Attraverso lo sport, una persona comincia a conoscere le sue autonomie. Per fare sport devi uscire di casa, prendere una macchina, imparare a tirare giù la carrozzina, avere un confronto con la società. Si incomincia a vedere la vita e piano piano si comincia a capire che tutto sommato non è male, che sarebbe molto peggio non avere questa vita. La parte agonistica passa in secondo piano. Il discorso va allargato ad un altro ambito: a volte ci sono 'disabilità' sconosciute, persone apparentemente sane, ma che in realtà dentro stanno vivendo qualcosa che è molto più grave di quello che ho vissuto io. Quello che è nascosto non lo puoi vedere e quella persona non la puoi aiutare. Ci sono persone che non sanno che in realtà c'è ancora la possibilità di venirne fuori. Lo sport serve a questo: è socialità sempre e comunque, non deve essere solo risultati".
Come hai conosciuto il mondo del tennis?
"Fin da prima dell'incidente, sono sempre stato appassionato di tutti i tipi di sport, tant'è che ho studiato scienze motorie a Bologna. Proprio attraverso questi studi, ho avuto modo di conoscere Fabian Mazzei, che è ed è stato il più forte italiano di sempre nel tennis paralimpico. Con Fabian avevo anche palleggiato (ero amatore prima dell'incidente): io in piedi, lui seduto. Ero rimasto colpito: così, nel 2011, poco dopo l'incidente, col mio attuale maestro, Stefano Venturoli, andai nuovamente a trovare Fabian e Alberto Setti e loro mi hanno dato indicazioni e una carrozzina per giocare. Inizialmente giocavo per divertimento, senza troppo impegno: la svolta arrivò nel 2017, per merito di Cinzia Calzolari, che oggi purtroppo non c'è più. Lei, come me, frequentava il Club La Marchesa, di Mirandola, e, insieme a Matteo Parrino, mi ha spinto ad impegnarmi di più. Cinzia mi ha dato veramente un grosso contributo, a livello economico, ma soprattutto morale: insieme a Matteo organizzò una raccolta fondi, grazie a cui riuscimmo ad acquistare una sedia a rotelle delle mie misure per giocare a tennis, che tuttora sto utilizzando, anche se è a disposizione di chiunque voglia provare questo sport, in netta crescita negli ultimi anni. Ne approfitto per dire che chiunque abbia qualsiasi problema a livello motorio può provare il tennis paralimpico. Molto spesso, chi ha, per esempio, qualche problema a ginocchia o anche, piuttosto che usare una carrozzina, smette di giocare. Invece, questa è un'opportunità. Dal 2017, quindi, ho iniziato a fare sul serio e l'anno dopo ho fatto il mio primo torneo nazionale. Ad oggi, sono il numero 6 italiano e 143 nel mondo. Per i risultati che ho raggiunto, ci tengo a ringraziare il mio maestro Stefano Venturoli, il Club La Marchesa e i circoli di Concordia e Cavezzo. Quando credo in un progetto, mi impegno a fondo: vado a lavorare molto presto alla mattina in un ufficio di produzione, poi vado ad allenarmi a Bologna, mi cambio in campo e alle 15.30-16 sono di nuovo in palestra a lavorare. Il mio esempio dimostra che è vero che i limiti sono solo nella testa: se uno ha voglia, fa. Una cosa che mi ha aiutato molto è stata quella di avere tanta umiltà: mi metto continuamente in discussione. Questo mi permette di allenarmi tanto, di cercare di capire cosa non va e di non provare invidia. Anche oggi, nel mondo del tennis paralimpico, se uno è più forte di me non sento invidia, ma anzi cerco di capire cosa posso fare per raggiungere i suoi livelli. Quello che cerco di essere è essere il miglior Marco ogni giorno, nella vita e nello sport. Non cerco di essere un campione".
Di seguito, una gallery con alcune immagini che ritraggono Marco Pincella nel corso di alcuni tornei di tennis paralimpico:
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