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18 Aprile 2025
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Indagine Ocse: italiani popolo di ignoranti

Nel dicembre di 11 anni fa, vale a dire nel 2014, scrissi un articolo dal titolo “la nostra repubblica fondata sulla mediocrazia”. Avevo tentato di affrontare il tema dello spreco di soldi pubblici perpetuato dalla caste dei burocrati. Una casta che dilapidava una somma, stimata, di circa 70 miliardi di euro l’anno.

Cretinismo legislativo”, scriveva Gian Antonio Stella, aggiungendo “che la burocrazia ostacoli la prosperità del Paese, che sia ormai padrona del campo e che tenga al guinzaglio i ministri stessi, è incontestabile”.

Conclusi quell’articolo con una frase che, riletta oggi, ad undici anni di distanza, considerando ciò che sta accadendo oggi negli Stati Uniti, sinceramente mi inquieta.

Scrissi infatti che gli Stati Uniti licenziano migliaia di dipendenti pubblici, mentre noi insceniamo finte riduzioni di costi inutili: province che dovrebbero essere chiuse ma che di fatto continuano ad operare come prima; enti inutili che dovrebbero essere eliminati, ma i cui dipendenti (che rappresentano il costo maggiore) vengono recuperati in altri Enti. Potremmo dare in appalto agli americani la riforma della Pubblica Amministrazione. Forse le cose potrebbero cambiare”.

In quegli anni gli Stati Uniti erano ancora considerati la più grande democrazia del pianeta, simbolo di efficienza e rispetto delle regole. Un Paese dove vigeva il sacro principio della meritocrazia. Dove ogni libero cittadino poteva contestare l’opinione del capo. Una Repubblica fondata sui sani e forti principi del dialogo e del confronto.

Mentre invece l’Italia aveva intrapreso il triste cammino verso la demeritocrazia: meno si sa, meglio è per chi governa. In quell’articolo citai anche una frase di un politico berlusconiano, un certo Antonio Scajola che ad un suo collaboratore, incaricato di scegliere i candidati alle elezioni politiche, avrebbe detto: “non m’importa di avere un Nobel in lista, m’importa sapere se voterà una legge di cui non sa nulla”.

Che dire? Noi abbiamo sempre scimmiottato gli americani. Dovrebbe forse rallegraci il fatto che oggi sono loro a copiarci. Anzi ci hanno superato. Hanno finalmente aderito al movimento del gobbledygook, ovvero l’arte di confondere le acque, che consiste nel selezionare dirigenti tanto incapaci quanto fedeli ai capi e bravi a confondere i cittadini. Mediocrazia, la chiamano altri, il potere in mano ai mediocri.

Una mediocrità che, a pochi mesi dall’insediamento del Presidente americano, sta già preoccupando molti dei suoi elettori.

C’è da domandarsi infatti come sia possibile che poco più della metà degli elettori americani non abbia capito chi stava eleggendo come suo Presidente. Infatti com’è possibile?

Ce lo spiega Umberto Galimberti, filosofo, saggista e psicoanalista, maître à penser della sinistra italiana.

Siamo ultimi in Europa per la comprensione di un testo scritto”, afferma Galimberti. “In Italia stiamo assistendo da molti anni ad un preoccupante fenomeno di analfabetismo di ritorno”.

Su un vocabolario composto da 260.000 lessemi, che una volta declinati e coniugati formano un vocabolario di 2 milioni di parole, un italiano con un’istruzione medio/alta conosce circa 47 mila vocaboli. La maggioranza degli italiani utilizza 6.500 parole come vocabolario di base e circa 2.000 come lessico fondamentale.

E’ stato stimato che per comprendere un discorso o un testo e poterlo analizzare in modo critico, occorre la conoscenza di un numero di parole che oscilla tra 10.000 e 15.000. Un numero ben lontano da quello espresso dal lessico fondamentale.

I pensieri sono proporzionati alle parole che conosciamo - continua Galimberti – e quando un popolo pensa poco, è ignorante, e perde la cognizione dei fenomeni che lo circondano: sociali ed economici”.

L’indagine PIAAC dell’Ocse

E’ quanto emerge, infatti, da un’indagine realizzata dall’INAPP (Istituto nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), all’interno del programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’Ocse.

L’indagine, intitolata “Le competenze cognitive in Italia nel contesto internazionale”, ci presenta un Paese, l’Italia, dove un adulto su quattro ha ridotte competenze in tutti e tre i domini cognitivi analizzati: comprensione di testi scritti (LITERACY), utilizzo di informazioni matematiche (NUMERACY) e risoluzione di problemi in situazioni dinamiche (PROBLEM SOLVING). Nel Sud Italia quasi uno su due.

Analizzando ogni dominio cognitivo ne emerge che in Italia circa il 35% delle persone d’età compresa tra 16 e 65 anni ha ridotte competenze sia nella literacy che nella numeracy (25% nella media Ocse), mentre il 45% ha ridotte competenze nel problem solving (29% nella media Ocse).

Le persone con alti livelli di competenze nel nostro Paese sono relativamente poche: il 5% nella literacy (12% nella media OCSE), il 6% nella numeracy (14% nella media OCSE) e l’1% scarso nel problem solving (5% nella media OCSE).

Un problema che era stato analizzato nel 2013 dall’IPSOS, società specializzata in indagini di mercato, che nell’indagine denominata “i pericoli della percezione”, posizionava l’Italia prima in classifica tra le popolazioni con una visione scorretta della realtà, basata più su pregiudizi che su fatti reali.

Natale Forlani, Presidente dell’INAPP, ha dichiarato: “l’indagine sulle competenze degli adulti condotta dal nostro Istituto evidenzia l’urgenza di investire in istruzione e formazione per colmare le criticità emerse. Serve il coinvolgimento di attori pubblici e sociali per costruire un’offerta formativa efficace, capace di potenziare le competenze, anche digitali, oggi indispensabili per affrontare con successo il mondo del lavoro e la vita sociale. Inoltre, è necessaria una lettura integrata dei fenomeni in atto nel nostro Paese, analizzando l’impatto dell’invecchiamento della popolazione e delle migrazioni sul patrimonio complessivo di competenze degli adulti in Italia”.

“L’ignoranza si lascia affascinare dagli slogan”, afferma Galimberti. “Gli slogan di un politico che comunica il nulla, come ad esempio Salvini, funzionano, perché non sono un sillogismo, non richiedono un ragionamento concatenato”, conclude il filosofo.

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