Lo chef Rino Duca, dalla Sicilia a Ravarino: “La Bassa? Rimanere è stata una scelta”
RAVARINO- Nel 2019 la Guida Michelin segnala il locale dello chef Rino Duca come novità, l’Espresso gli assegna due cappelli e anche il Gambero Rosso lo premia per il miglior piatto Street food da chef 2021 ( il piatto è “1983 cronaca di un'estate” dedicato al magistrato Rocco Chinnici).
La cucina di Rino Duca è eclettica come la sua personalità, ricca di sfumature come il suo temperamento, legata indissolubilmente alla Sicilia e allo stesso tempo pervasa dalle incursioni itineranti dello chef. Una "cucina di mare e di memoria".
Ma prima di essere uno chef, Rino Duca è un uomo: con un debole per psicologia e psiche umana e l'innata capacità di raccontarsi con umiltà e autenticità.
Si diploma all’alberghiero poi però si allontana dalla cucina: ha studiato scienze politiche, è stato educatore in una comunità di recupero, ha lavorato con i detenuti. Cosa ha risvegliato la sua passione per la cucina?
La cucina non è mai stata abbandonata del tutto, anche quando ho fatto altro ho sempre continuato a “bazzicare” nelle cucine. C’era, ma era qualcosa di latente. Nel 2002 vengo contattato da un centro di formazione che cercava un educatore con competenze da cuoco e io corrispondevo al profilo che loro cercavano per insegnare cucina in carcere. Tecnicamente mi rimetto la giacca da cuoco in quel periodo e mi ri-innamoro della cucina: scopro una cucina diversa, comincio a interessarmi alla cucina di qualità, frequento ristoranti stellati (come quello di Mauro Uliassi ed Enrico Crippa). Entro di nuovo in cucina ma da un ingresso diverso da quello che conoscevo.
Il mercato di Ballarò a Palermo, quando era bambino, è stato per lei quasi un’esperienza mistica. È corretto?
Assolutamente. Da bambino abitavo in quella zona. Il battesimo di fuoco della mia vita professionale da cuoco è nato lì. Mia madre mi affidava il compito di fare la spesa, che per me era un piacere: andavo a caccia di odori e sapori. Ho imparato come scegliere la materia prima, le verdure, il pesce. È stata davvero un’esperienza di vita.
Nasce a Leonforte (in provincia di Enna), cresce a Palermo e si trasferisce nella Bassa. Come è arrivato in Emilia-Romagna?
Arrivo nel 1992 nella Bassa modenese, l’anno in cui uccidono Giovanni Falcone a Capaci. Lascio la Sicilia con molta rabbia, Palermo era una città difficile. Raggiungo mio fratello che abitava già nella Bassa, mi era capitato di venire a trovarlo ed ero assolutamente innamorato di questo territorio. Mi piaceva come era organizzato, il funzionamento e l’alto senso civico degli emiliani. Il caso mi ha portato qui e il caso ha voluto che rimanessi nella Bassa. Poi è stata una scelta, perché ho sempre trovato bello abitare in campagna.
Veniamo a “Il grano di pepe”, la sua osteria a Ravarino: innanzitutto come mai questo nome?
Quando ho deciso di aprire e rilevare l’Osteria (prima c’era una trattoria che faceva cibo tradizionale) dovevo scegliere il nome. Il grano di pepe è qualcosa di piccolo che ha diverse sfumature, è un ingrediente che viene dall’India ma che qui da noi è molto utilizzato. La mia osteria somiglia molto al grano di pepe, perché è piccola (18 posti) ma ci puoi trovare tante sfumature. La scelta del nome è stata inconscia.
Nella patria del tortellino si è fatto strada con i profumi e i colori della sua Sicilia e tante altre contaminazioni dei suoi viaggi. Come definirebbe la sua cucina?
Quando ho iniziato, la mia era una cucina molto tecnica. Sapevo quello che non volevo fare: non volevo un ristorante di pesce tradizionale con il solito spiedino di seppioline e spaghetto allo scoglio. Avevo in qualche modo rimosso le mie origini, non facevo una cucina tradizionale siciliana, cercavo la creatività. Durante il cammino e nel confronto con i clienti (che mi chiedevano spesso da dove venissi) c’è stata un’elaborazione. Oggi la mia è una cucina dalla forte intensità siciliana, perché è quello che sono, ma non è una cucina tradizionale. Ho cominciato a viaggiare e a portare da ogni mio viaggio un piatto, una suggestione, un ingrediente. Ecco definirei la mia una cucina con una forte identità siciliana ma in movimento, in viaggio.
Mi parla del progetto avviato con il liceo artistico Venturi di Modena?
Il progetto è nato due anni fa quando mio figlio Samuele ha deciso di intraprendere l’indirizzo di ceramica all’Istituto Venturi di Modena.
Sono sempre a caccia di piatti e bicchieri particolari, perché sono importanti nella proposta che faccio in osteria. Sono attratto dalla ricerca e mi piace proporre qualcosa di innovativo. Da lì è iniziato un primo contatto con la professoressa Maria Grazia Villani e abbiamo cominciato con degli incontri per capire la fattibilità del progetto.
È stato straordinario perché i progetti sono stati creati dagli stessi ragazzi delle classi quarta e quinta B di design ceramico indirizzati dagli insegnanti: Maria Grazia Villani, Felice Perna e Italo Consorti.
Il tema era l’identità siciliana in chiave creativa. Non è stato facile perché bisognava fondere creatività e funzionalità. Il piatto deve essere bello, ma deve anche essere usato con tutte le problematiche legate alla funzionalità: deve essere impilato, si deve poter lavare bene, deve essere resistente agli urti e piacevole al tatto per i clienti. Un oggetto di design deve essere bello e funzionale, altrimenti è solo decoro. Il ritorno per i ragazzi spero che sia stato utile, perché per coloro che si cimenteranno con il lavoro di ceramista il rapporto con il cliente finale sarà centrale. Proprio la settimana scorsa ho scelto e deciso i piatti disegnati e progettati dai ragazzi, saranno messi in produzione in questi giorni e potrò cominciare a usarli (sperando di poter aprire l’Osteria)per maggio o giugno.
La ristorazione è stato sicuramente uno dei comparti più colpiti dalla pandemia. Lei come ha affrontato il lockdown e le chiusure imposte dai decreti?
Subito dopo lo sgomento e la paura iniziali mi sono immediatamente attrezzato per le consegne a domicilio, dopo qualche giorno. Ho creato una lista con gli indirizzi che avevo dei miei clienti e ho inviato il “menù delivery”. Cucinavo, mi toglievo la giacca e consegnavo. È stata una sfida grandissima per me: la paura, per chi cerca di fare un lavoro di eccellenza e ricerca, è di svilire in qualche modo il lavoro che hai fatto. Ma questa pandemia si è rivelata una guerra e io dovevo uscire dall’angolino del ring facendo quello che sentivo fosse giusto. E per me ha funzionato. I miei clienti sono principalmente nella Bassa e a Modena, ma mi è capitato di fare consegne anche a Parma, Correggio, Reggio Emilia e Bologna. Sono riuscito a mantenere un contatto diretto con i miei clienti e nel mese di giugno è nato il progetto Gandò: ho aperto al pubblico lo spazio che ho adibito a orto a Camposanto e con il circolo Cum Grano salis abbiamo organizzato lì pranzi e cene. L’idea è quella di continuare l’esperienza anche la prossima estate, Covid permettendo.
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