La California tra la Bassa e l’America, intervista alla regista Cinzia Bomoll
Di Antonella Cardone
FINALE EMILIA – Cinzia Bomoll. L’ultimo suo film è “La California“, un lungometraggio capace di tenere gli spettatori attaccati allo schermo per 100 minuti e di farli, alternativamente, sognare, sorridere, disgustare, arrabbiare, sperare, trascinandoli in un thriller ambientato negli anni Novanta in terra emiliana, con gioiellini alla Samuel Beckett e un estetismo da Pupi Avati in gonnella.
E proprio alla presentazione del suo film a Finale Emilia incontriamo Cinzia Bomoll, la regista bolognese che ci apre una finestra su mondo del cinema italiano.
Cento minuti, un’ora e quaranta tutti d’un fiato. Colpisce che questa sera a Finale nessuno pare essersi annoiato, anche se ormai siamo abituati a vedere i film a casa nostra su piattaforme come Netflix o Prime potendo spegnere, mettere in pausa, velocizzare, rallentare. Come si fa un lungometraggio interessante di questi tempi?
Bisogna ragionare su un pubblico abituato a un ritmo più veloce e alla possibilità di potersi fermare. Il primo minuto deve partire subito, i primi cinque minuti sono fondamentali perché sono quelli in cui lo spettatore decide se continuare a guardare oppure no. Ogni piattaforma ha il suo linguaggio e il film in sala, considerato più autoriale, si fa in un modo, quello per la tv in un modo diverso.
Un’altra differenza è che la tv chiede il genere. Mentre il cinema è dramma e prende tutto, in piattaforma si sceglie per generi, e questo film sarà “thriller”. Quindi sulle piattaforme avrà un montaggio diverso, ma anche un inizio diverso.
La rivoluzione dei linguaggi rappresentati da Tik Tok, coi video brevissimi dove tutto si decide nei primi tre secondi, a tuo parere toccherà anche il cinema?
E’ una rivoluzione interessante perché chiede sintesi a livello creativo, è come fare cortometraggi da un minuto, mi ricordo che fu proprio quella la mia prima opera da regista.
Come tutte le cose va preso con le pinze. Le modalità di fruizione tradizionale rimarranno e torneranno. Vedi ad esempio come si riempiono i teatri oggi: dopo una lunga crisi se è ne sentita la mancanza, serve lentezza dopo il boom della velocità. Oppure i fotografi che tornano a usare la pellicola dopo il boom del digitale.
Il futuro apre molte possibilità, la tecnologia ci potrà perfino far realizzare film con attori già morti.
Per “La California” hai messo assieme un cast variegato con attori del calibro di Stefano Pesce e Andrea Roncato, volti amati da sempre come Andrea Mingardi o Vito, monumenti della musica come Angela Baraldi o della storia del cinema come il cileno Alfredo Castro, eroi di Sanremo come Lodo Guenzi e Nina Zilli e le star di Instagram Giulia e Silvia Provvedi alias Le Donatella. E’ una scelta di marketing perchè ognuno porta con sè il proprio pubblico o c’è altro?
Mi piace fare, come Robert Altman, cast numerosi e con visi noti, o portare in scena attori conosciuti ma in vesti diverse dal solito. Lo avevo già fatto nel mio primo film, “Il segreto di Rahil” con Giorgio Faletti. Ma lo aveva fatto anche Pupi Avati con Diego Abatantuono, da personaggio comico lo ha reso drammatico. Mi piace mischiare senza pregiudizi, serve fantasia anche nel cast, per sperimentare gruppi inusuali. È traversale cercare attori e volti inaspettati.
Il titolo del film – diverso da quello del tuo libro da cui è tratto, “Lei che nella foto non sorrideva”, prende il nome dalla realmente esistente località “La Calfornia”, frazione di Castelfranco. Ma un parallelo tra la Bassa emiliana e il deserto della California regge?
Si, il titolo è giocato sul fatto che tutte le province si somigliano, la nostra è una zona culturalmente simile a una certa America. Ad esempio nei luoghi del Midwest, coi maiali, le mucche, il grano, i contadini, la sera nei locali a bere, le ragazze in jeans e senza trucco, la musica rock. Anche per il cibo: la valle dell’Hudson con l’allevamento di maiali è una provincia sovrapponibile alla nostra, con le strade grosse e i paesi sul fiume. La gente è sanguigna, con momenti folli e anarchici, vedi certi nomi dati ai figli. La provincia è così, più lenta e noiosa, si deve usare la fantasia, ma è una cosa bella. Tanti scrittori, registi, musicisti vengono dalla provincia, non è un caso.
Allora se c’è una ragazza della Bassa sogna l’America, ci sarà anche una ragazza americana che sogna la Bassa?
Il mito italiano c’è, non proprio sulla campagna ma c’è. Quello della dolce vita, ma anche quello della vita spensierata all’aria aperta rappresentato ad esempio cartone animato “Luca“. E non solo. Le ragazze e i ragazzi seguono la moda, il modo di vestire, ambiscono a una Italia elegante e con stile. Si vede ad esempio con le automobili, piacciono le macchine Lamborghini, il top sono le Pagani, che sono le più costose.
Un consiglio per chi vuole iniziare questa carriera.
Come studio, puntare al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, ma soprattutto prendere due o tre amici e fare corti, scrivere storie. Così capisci se è quel che vuoi fare e passi al lungometraggio.
Come capisci che è la tua strada?
È la forma d’arte che sceglie te, lo senti che vuoi far certe cose e non puoi castrarti. Con me le lezioni di pianoforte non sono servite a nulla ma mio fratello su quello stesso pianoforte ci ha fatto una carriera, oggi è pianista. Io da piccola scrivevo e non mi sono mai fermata.
E quanto capisci che è meglio lasciare perdere?
Quando non sei disposto a fare sacrifici. E in questo lavoro ne sono richiesti molti perché metti in discussione la tua vita affettiva. Ed faticoso ti devi svegliare in piena notte e metterti al lavoro se hai l’ispirazione, non è prevista pigrizia.
Ma questo non vuol dire che bisogna fermarsi alle prime critiche negative. La paura del rifiuto non bisogna averla, ci vuole intelligenza perchè le critiche aiutano se vengono ascoltate. Il regista è quello che si prende le critiche fin da subito e non puoi peccare di vanità.

Cinzia Bomoll sul set con Lodo Guenzi.
Ph Roberto Gatti
Sul Panaro on air
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